Tempo fa ascoltavo un seminario di Alessandro Barbero su Caterina da Siena come esempio di donna del Medioevo di cui si hanno tracce più o meno dettagliate. La cosa che mi ha colpito della sua storia è come lei sia diventata celebre e santa per quello che oggi sicuramente definiremmo una malattia mentale e tratteremmo come tale. Per chi non conoscesse la sua storia, questa donna è morta di fame e sete perché credeva che attraverso il suo digiuno espiasse i peccati di chi le era intorno; credeva inoltre che fosse Dio in persona a dirglielo, riferendo di averne visione e sentirne la voce. Oggi, oltre a un’evidente anoressia le sarebbero diagnosticate altre patologie, tra cui azzardo (senza alcuna competenza in materia) una depressione, e qualche forma di schizofrenia o malattie affini.
Dalla conferenza emerge che nonostante i tentativi di dissuaderla dalla sua attività, o per lo meno di ridimensionarla quanto basta da tenerla in vita, la donna aveva ricevuto una certa celebrità e un plauso in vita, oltre che una relativamente rapida canonizzazione. L’intera società riconosceva nei sintomi delle sue sofferenze psichiche, il segno di una autentica e sacra intercessione. Tutt’oggi i cristiani, nelle varie istituzioni che riconoscono i santi, considerano valida quella visione dei fatti. La storia mi ha dato molto da pensare, e si è incastrata a una serie di riflessioni su come a livello di società presente e passata, ci poniamo nei confronti della malattia mentale e del concetto di pazzia.
Quello del pazzo, è una figura che ha avuto una moltitudine di significati nel tempo, e si ritrova a voler significare tutto e niente, un po’ per le lotte contro lo stigma verso i malati mentali, un po’ per correnti come l’antipsichiatria, e maggiormente per riflessioni come quelle pirandelliane sul concetto stesso di matto. L’etichetta di folle, quindi viene attribuita in modi a volte arbitrari al di fuori del contesto clinico, contesto che è in costante discussione con se stesso sui limiti e tassonomie delle varie patologie.
I concetti più abusati sono probabilmente quelli di psicopatico e sociopatico. Spesso i due termini vengono confusi anche quando si cerca di usarli con cognizione di causa. La psicopatia è una malattia particolarmente interessante: Wikipedia la definisce come “ un disturbo mentale caratterizzato da comportamento antisociale, deficit di empatia e di rimorso, emozioni nascoste, egocentrismo e inganno”. Scendendo più nei dettagli, uno psicopatico sarebbe neurologicamente incapace di provare empatia, e tal volta di provare tutta una serie di sentimenti. Gli psicopatici riescono a comprendere i sentimenti in modo intellettuale, osservandoli negli altri. La loro condizione, inoltre, li esenta da ogni qual forma di etica e di morale che non sia puramente di facciata, e li rende particolarmente inclini a una vita completamente egoista con tendenze criminali e/o manipolatorie.
Il problema degli psicopatici, è che quando non diventano criminali a sangue freddo, sono perfettamente capaci di passare inosservati e vivere perfettamente integrati nella società. Essendo, solitamente, anche molto intelligenti, riescono a diventare persone di successo e accumulare soldi e potere (sia chiaro, non intendo implicare che tutte le persone potenti sulla terra siano psicopatiche). Alcune speculazioni, probabilmente indimostrabili, asseriscono che banche, istituti finanziari o in generale imprese di grandissime dimensioni, assumano volontariamente dipendenti con questa patologia per sfruttare le loro capacità gestionali efficienti e senza remore. Gli psicopatici, spesso, sono anche incredibilmente carismatici, caratteristica che permette loro di fare leva sulle vittime delle loro manipolazioni.
Che sia per propria volontà o di terzi, ci sono psicopatici non solo in posizioni di potere nel senso più classico ed esplicito, ma anche in posizioni che in un modo o nell’altro possono avere influenza nella nostra società. Non essendo possibile quantificare né i numeri né l’impatto della presenza di questi soggetti negli organi decisionali, pubblici e privati, è facile cadere in pseudo-complottismi. Se però ci si interroga senza cercare dei disegni di lobby ci si chiede se in qualche modo non siano loro a dettare gli standard morali o comunque a causare, magari parzialmente, tutta una serie di lati negativi della società, come una cultura del lavoro malsana, il proliferare di fake-news e post-verità, e altri fenomeni che possono essere innescati da poche persone in mala fede.
Se la domanda viene posta come “viviamo in una società di pazzi?” si aprono dei retroscena ancora più inquietanti. La società dei pazzi, in qualche modo si istanzierebbe con il tardo capitalismo, ovvero una società in cui le grandi corporazioni hanno sviluppato un potere così ampio nella vita di tutti i giorni da creare tutta una serie di ingiustizie e assurdità difficili da contrastare. Negli ultimi anni sta diventando sempre più evidente come certe enormi imprese, dal fatturato comparabile al PIL di piccoli Stati, possano avere una influenza tutt’altro che trascurabile sulle decisioni prese dagli enti nazionali e sovranazionali. Con questo non intendo scagliarmi a caso contro il Capitalismo, ma solamente cercare di analizzare una delle conseguenze dell’attuale paradigma economico.
Un inquietante cambio di prospettiva è quello di guardare alle imprese come fossero persone, cosa non troppo dissimile da quello che accade con la creazione di un brand. A volte sono le stesse aziende ad antropomorfizzare i propri brand, in modo da poter sfruttare i social network per creare campagne virali. Il problema è che se i brand fossero persone sarebbero psicopatiche. Ad eccezione di aziende guidate da persone particolarmente virtuose le imprese non provano sentimenti e fanno di tutto per perseguire i loro fini di crescita, elusione fiscale e tendenza al monopolio. Per fortuna ci pensano gli organi legislatori a limitare queste tendenze. Tuttavia, lì dove il diritto fatica ad arrivare, le aziende operano senza alcuna remora morale. Si pensi allo sfruttamento di risorse e capitale umano dei paesi in via di sviluppo, specialmente da parte di quelle aziende occidentali che vendono un’immagine ben diversa da quella dello sfruttatore di operai trattati al limite della schiavitù.
Si può facilmente obiettare che i brand e le imprese non siano esseri senzienti ma entità complesse formate da moltitudini di parti, tra investitori e amministratori, ognuno con i propri fini da realizzare. A questo si risponde altrettanto facilmente che, proprio grazie a questa spersonalizzazione, si possono ricreare le stesse dinamiche ricostruite da Hanna Arendt ne La banalità del male. A ogni livello, piccoli o grandi mali vengono perpetuati in nome dell’azienda, dagli straordinari non pagati alle politiche lobbistiche (questa volta usato in termini dispregiativi). Questo perché l’azienda non perdona, l’azienda ha le sue esigenze e non le interessa delle persone, tranne negli spot pubblicitari. È con parole del genere che vari manager liquidano le lamentele dei loro dipendenti di fronte a licenziamenti o irregolarità.
Anche in questo caso ritorna il rapporto con la società: noi tutti, in modo più o meno cosciente accettiamo questo gioco e ipocritamente scegliamo a nostro comodo se e quando antropomorfizzare le aziende o meno.
In sostanza, anche oggi nonostante il cambiamento del concetto di follia, nonostante tutti gli sforzi per allontanare dalla società chi soffre di patologie mentali, siamo in qualche modo circondati dalla follia, e come società, la accettiamo inconsciamente, perché travestita da qualcos’altro. Ieri era la santità, oggi è il profitto.