È un periodo di forti tensioni: nel pieno del mese del pride, con le proteste anti-razziste legate alla morte di George Floyd e l’annuncio di Marco Crepaldi di abbandonare le tematiche di genere ci si ritrova contemporaneamente a toccare i tre temi più caldi della questione diritti e libertà individuali. Le tematiche sono chiaramente connesse tra di loro e i confini delle varie battaglie diventano sempre più sottili da quando sta prendendo piede anche nel mainstream il concetto di intersezionalità.
Io personalmente ho sempre evitato di espormi in prima persona e l’ho fatto principalmente per due motivi:
-il primo è che riconosco i miei limiti nella comunicazione scritta, nella quale tendo a sembrare molto più estremista di quanto non sia veramente e temo quindi ripercussioni legate al travisare o decontestualizzare le mie parole;
-il secondo motivo è che le mie opinioni tendono a essere piuttosto mutevoli e preferisco non lasciare una traccia scritta di opinioni deboli, debolmente argomentate con le quali io stesso potrei trovarmi in disaccordo nell’arco di un anno o due.
Anche se non mi esprimo, in realtà, mi informo molto (nei limiti che il tempo libero impone) e queste tre questioni sono oggetto di forte interesse. Come molti italiani molta parte della mia informazione a riguardo è in lingua inglese sia perché i paesi anglofoni del Nord del mondo sono notoriamente più avanti sulle questioni diritti civili, sia perché l’Inglese sta diventando una vera e propria lingua franca. Ovviamente una parte consistente di questa informazione viene dagli Stati Uniti. È da circa cinque anni che osservo la formazione di una nuova norma della conversazione, dove sono emersi i nuovi schieramenti in contrapposizione duale che riprendono più o meno vecchie argomentazioni, a volte dimenticate, e ri-scoperte dalle ultime decadi del secolo scorso.
Sin da allora ho notato come la contrapposizione si stesse polarizzando e inasprendo (come in tutto il discorso politico, del resto) e ho notato, in particolar modo negli Stati uniti, come sia sempre più difficile argomentare in modo complesso e critico all’interno della propria fazione. Così i discorsi si riducono a slogan di una serie di posizioni da accettare in blocco in modo ideologico. Se ti trovi in disaccordo con anche un solo punto nella lista di slogan, sei bollato come traditore e considerato della fazione opposta. Per anni ho osservato questo clima e ho temuto che le stesse argomentazioni tossiche e spicciole arrivassero in Italia, per una volta trovando conforto nella lentezza con cui il progresso culturale arrivi in un paese restio alla novità.
Un ulteriore problema che ha investito solamente le frange più progressiste è l’appropriazione da parte delle aziende delle loro cause: molte aziende per ragioni di marketing e consolidamento del brand hanno iniziato a fingere di abbracciare le varie cause di turno amplificando quel processo di svuotamento dei messaggi portati avanti attraverso degli slogan, che aderiscono solo di facciata a una causa, ma remando spesso contro nei fatti.
Questa situazione ha portato diverse conseguenze negative: dalla nascita della cancel culture alla creazione di comunità tossiche come quella incel.
Mentre negli Stati Uniti o più in generale nelle comunità anglofone si inizia a fare i conti con queste problematiche, pian piano il discorso sta arrivando in Italia dove inizio a vedere le stesse dinamiche negative.
Nel caso italiano si aggiunge un’ulteriore problematica: la stessa assenza di spirito critico che porta ad accettare in blocco un intero paradigma ideologico porta a riportare tale paradigma limitandosi a tradurre gli slogan senza contesto. La problematicità di questo atteggiamento è facile da vedere soprattutto nelle questioni legate alla lotta anti-razzista: se da un lato è palese che ci sia un problema di razzismo in Italia, è altrettanto palese che la situazione italiana e quella statunitense siano profondamente diverse. Diverse situazioni storiche e culturali hanno portato a due sfaccettature di razzismo molto diverse e che vanno dunque combattute in modo diverso dove nel primo caso è un problema più legato alla xenofobia mentre nel secondo è ancora legato alle teorie di stampo lombrosiano che oggi in Italia appaiono ridicole anche a chi fieramente si definisce razzista. Detto in soldoni, se in Italia il problema è essere lo straniero a prescindere dall’etnia, negli USA la razza è un marchio ontologico a cui vengono attribuite tutta una serie di conseguenze insensate. Pensare dunque che riproporre le classiche argomentazioni decontestualizzate che girano nel dibattito statunitense è nel migliore di casi una perdita di tempo.
Non essendo calati completamente nel contesto storico-culturale americano (tralasciando ovviamente l’imperialismo mediatico al quale siamo esposti dal secondo dopoguerra) abbiamo il vantaggio di poter guardare alle stesse tematiche da punti di vista completamente diversi scovando punti di forza e debolezza delle argomentazioni di entrambe le fazioni, rompendo del tutto gli schemi ideologici che le compongono.
Il mio appello è dunque: non limitatevi a riportare quello che assorbite dagli americani ma cercate di elaborarlo, farlo vostro ma soprattutto calarlo in quello che è il contesto italiano perché altrimenti il vostro attivismo, quando non sarà controproducente, sarà soltanto una perdita di tempo che serve a pulirsi la coscienza piuttosto che a dare un vero contributo.