La Puglia e l’identità turistica

Gioleppo
10 min readAug 9, 2024

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Come il turismo di massa sta forgiando un’inedita identità collettiva

Se chiedete a un italiano emigrato (anche nel Nord Italia) o anche negli spazi online di dove sia, la maggior parte delle volte vi risponderà con la propria regione. Eccezioni più o meno comuni sono luoghi come Roma e Milano, dove le città non solo sono parecchio popolate ma sono anche caratterizzate da una propria identità ben impressa e nota a livello nazionale (anche se non sempre in modo accurato). Se qualche anno fa aveste posto la stessa domanda a me, avrei risposto di essere di Bari, alla quale solitamente seguiva una seconda domanda: “ma di Bari Bari?”.

Quando mi sono trasferito al Nord nel 2016 ho notato una serie di risposte ricorrenti di cui la maggior parte mi attribuiva un qualche stereotipo pugliese tutto tranne che accurato, altre volte l’idea della città era ben distante da quella che avevo vissuto in quanto barese con almeno quattro generazioni di baresi di retaggio. Questo mi ha spinto negli anni ad adattarmi alle aspettative comuni e iniziare a descrivermi come genericamente pugliese. Il mio non è un caso eccezionale e anzi rientra in una più ampia abitudine di noi “pugliesi” di non descriverci come tali ma di identificarci sempre con la città o al massimo con la provincia. O per lo meno questo discorso valeva fino a prima del Covid.

Alla mia attribuita pugliesità quando sono in vena di provocazione rispondo che la Puglia non esiste, che è un’invenzione burocratica e che si dovrebbe riprendere a parlare di Puglie al plurale. Effettivamente se torniamo indietro nel tempo, l’Apulia ha indicato un’area geografica dai confini cangianti che ha abbracciato territori del Molise, Basilicata, Campania e Calabria, fino all’affermarsi di quella che più o meno intendiamo oggi, ma quasi sempre col nome al plurale. A testimonianza di ciò, Wikipedia ricorda che “dall’unità d’Italia sino al 1931 il nome ufficiale dell’attuale capoluogo di Regione era Bari delle Puglie”. È solo con la creazione delle regioni come enti amministrativi che la Puglia viene denominata al singolare imponendo a nuova denominazione a noi familiare. Se per altre aree veniva riconosciuto che la regione amministrativa includeva più regioni in senso storico-etnico (pensiamo all’Emilia-Romagna), per le Puglie e per gli Abruzzi (attraverso anche lo scorporamento del Molise) non è toccata la stessa sorte.

Le Puglie al plurale

Per quanto il fattore storico è tra quelli che hanno portato alla creazione dei confini regionali come li conosciamo oggi, è chiaro che altri fattori non meno importanti come la continuità geografica, la le infrastrutture e l’amministrabilità dei territori sono stati determinanti. Così facendo, però, quella che oggi chiamiamo Puglia si rivela essere una panoplia di luoghi e di persone che, nonostante un quello che consegue dalla vicinanza geografica, spesso hanno poco in comune.

Puglia, Lucania e Calabria dei salentini in una mappa di epoca augustea.

Un barese è molto più culturalmente simile a un abruzzese che a un salentino e le lingue locali ne sono una testimonianza. Guardando a un livello più microscopico scopriamo anche altre eccezioni come la zona della Murgia, che pur essendo sotto Bari ha una sua identità e una cultura distinta, o analogamente le microregioni come quella garganica nella enorme provincia di Foggia. A questo si devono anche aggiungere le varie minoranze linguistico-culturali arbëreshe, grike e francoprovenzali, anche se fenomeni di questo tipo (soprattutto di derivazione albanese) si trovano un po’ ovunque nel Meridione. Un esempio clamoroso delle conseguenze di questa stranezza è quello Domenico Modugno, che per quanto si fingesse siciliano non solo era originario di Polignano a mare, che si trova nella sotto-regione della Terra di Bari, ma cantava in una lingua molto più simile a quelle del Salento che ai vari dialetti siculi ma che ancora oggi viene creduto siciliano dai più. Ancora più bizzarro è il caso della Basilicata che in vari momenti storici è stata considerata area delle Puglie e che vede nella sua parte più orientale una vicinanza culturale a Bari, Murgia e Taranto che riflette quella geografica al capoluogo Pugliese.
Effettivamente da Bari che si trova più o meno al centro della Puglia, si arriva molto più velocemente a Matera che a qualunque altro capoluogo pugliese se escludiamo la BAT, che oltre a essere di “recente” creazione, non corrisponde né storicamente, né linguisticamente, né culturalmente a un’area con una propria identità.

Al di là delle rivalità calcistiche che vedono la tifoseria Barese contrapporsi a praticamente ogni altra tifoseria degli altri capoluoghi, esiste una coscienza collettiva di questa eterogeneità non solo culturale ma soprattutto identitaria. Un mantra, tra il serio e il faceto, secondo cui il Salento non sarebbe da considerarsi Puglia riassume bene la situazione: sono i salentini stessi i primi a dirlo, con lo stesso orgoglio e una retorica curiosamente simile a quella con cui i romagnoli tendono a sottolineare di non essere emiliani. A differenza della Romagna con l’Emilia, non è tuttavia chiaro quali siano i confini del Salento con il resto della Puglia, dove al di fuori della provincia di Lecce la appartenenza al Salento dei vari comuni è parecchio arbitraria e dibattuta, con al centro del discorso questo o quel paese del brindisino che non è né carne né pesce.

La nascita di un’identità

Questo lungo preambolo sembrerà piuttosto contraddittorio con le esperienze vissute in prima persona o raccontate dal grande numero di turisti di una regione che non solo è diventata progressivamente sempre più di moda negli ultimi quindici anni, ma che sta diventando anche luogo di osservazione di per il fenomeno dell’overtoursim. Più in generale la Puglia viene sempre più raccontata nel panorama mediatico con un immaginario ben preciso. Come possono, migliaia di turisti, credere in una bugia? Come può la pizza pugliese (quella con grana, olive e a volte cipolla) essere così standardizzata al Nord ma essere completamente ignota agli stessi pugliesi? La questione è che in maniera un po’ nietzschiana questa bugia è una mezza verità.

Per quanto la mia esperienza di vita sia stata radicalmente diversa da quella offerta ai turisti, negli ultimi anni non posso che constatare una certa omogeneizzazione e in generale un cambio nella mia terra natia che la fa somigliare sempre più alla finzione turistica. Se io ho conosciuto dell’esistenza del pasticciotto leccese al Nord Italia grazie a un amico “conterraneo”, quando ancora ignaro di questo o quel bar fondato da salentini al di fuori del Salento, oggi sembra immancabile in un qualunque bar del resto della Puglia (e non solo).

La mia impressione non è infondata: esiste tutto un filone di ricerca accademica a cura di psicologi, antropologi e sociologi, che indaga sulle relazioni tra turismo e identità collettive. A partire dagli anni ’70 sono stati seguiti diversi approcci che hanno mostrato sia gli aspetti positivi che quelli negativi, fino ad arrivare ad approcci meno giudicanti. Uno studio del 2021 pubblicato sullo Scandinavian Journal of Hospitality and Tourism riassume bene la questione: se gestito in ottica collaborativa da parte di cittadini, enti privati e pubblici, il turismo può essere uno strumento potente di creazione di un’identità collettiva su base territoriale. Al contrario, esistono casi in cui questo processo può portare a una radicalizzazione di identità precedenti in opposizione alle ondate di turismo (ma non è il caso in questione).

La nuova vera falsa Puglia

Con questa nuova prospettiva alcuni aspetti di questo cambiamento assumono un certo significato unito a una coerenza interpretativa che lega vari fenomeni.

Per esempio alcune tradizioni, specialmente culinarie, stanno diventando tali in maniera retroattiva, con quei meccanismi che il prof. Alberto Grandi sbufala nella sua attività divulgativa e il nel suo podcast DOI. Ne sono un esempio gli spaghetti all’assassina: il piatto, ormai di moda al punto da aver ricevuto una fama internazionale, è effettivamente un piatto nato a Bari negli anni ’60 per mano di uno chef foggiano. Anche se l’assassina viene venduta come tradizionale e gli stessi baresi hanno un po’ abboccato a questa retorica, questi dimenticano un dettaglio non indifferente: il piatto è sì tipico ma solo nei ristoranti in un’area dove non c’è mai stata una cultura delle osterie, piuttosto una dello street food.

Anche il pesce crudo che è una vera tradizione pugliese (e non solo), è in realtà stato rivitalizzato dalla moda del sushi, dopo un periodo in cui i giovani e le classi più abbienti si stavano allontanando da questa usanza ritenuta generalmente rozza e antigienica. Inoltre, non è tutto oro quel che luccica: se questo o quel piatto ricevono particolare fortuna, diventando popolari dentro e fuori la regione, altri continuano a rimanere ignoti a 30km di distanza dal luogo d’origine dipendentemente dall’instagrammabilità del cibo o della sua esperienza di consumo. Da un lato abbiamo l’abuso di burrata che ormai insieme al pistacchio sta contagiando mezza nazione (e mangiandola in maniera tutt’altro che tradizionale), dall’altra abbiamo gli involtini (noti con tantissimi nomi come torcinelli o gnomarelli) ancora considerati disgustosi. Altri piatti si sono quasi o del tutto persi, come il formaggio coi vermi, che a differenza del più celebre casu marzu veniva fatto con latte vaccino, e non sembrerebbe esserci alcun movimento per la valorizzazione di queste pietanze.

Il cibo, si sa, è un pezzo fondamentale dell’identità di mezza Italia e delle sue varie identità locali che arriva anche dove non ce l’aspetteremmo. Un altro fenomeno interessante e decisamente più controverso di questo processo di creazione dell’identità pugliese è la canzone Baccalà di Serena Brancale. La canzone canta, in un dialetto che ricorda il barese, di una realtà idealizzata delle casalinghe baresi dedite alla preparazione di un non meglio specificato piatto a base di baccalà, per poi lanciarsi in una serie di insulti casuali e rivolti a non si sa bene a chi.
La canzone restituisce un’idea vaga e parecchio imprecisa di pugliesità, in una finzione non troppo simile alla dolce vita che continuiamo a vendere ai turisti americani come le maschere veneziane a Firenze o i mandolini a Verona che suonano canzoni della tradizione napoletana. Il tutto senza citazioni alla musica popolare, non per esigenza di ammodernamento, ma perché la musica tradizionale sopravvive e resiste in pochi luoghi ma è totalmente dimenticata in altri. Nel caso barese, a parte qualche vecchio lavoro di Gianni Ciardo ormai datato, la musica tradizionale è completamente sparita dall’immaginario comune, e di produzioni in dialetto sono parecchio rare a esclusione della scena Rap. Non a caso, la canzone del Baccalà è riuscita a ottenere dei dissing da chi la lingua e la cultura locale la canta da tempi non sospetti. Ciò nonostante i pugliesi sembrano apprezzare, se non altro perché diventa uno dei pochi modi di ottenere una rappresentazione mediatica per compensare al complesso di inferiorità nei confronti di Napoli e la sua cultura molto più rappresentata (e vasta).

Contemporaneamente allo svilupparsi della nuova identità ne aumenta anche la rappresentazione nel panorama mediatico: alla Puglia de “La capa gira” (un Gomorra ante litteram) e Checco Zalone si è passati a quella di Lolita Lobosco e Pio e Amedeo. Tutte queste presenze sugli schermi contribuiscono a consolidare un’identità comune guidate da una massima più o meno implicita: non importa che sia nel bene o nel male, l’importante è che si parli di noi e della nostra bellissima terra, non senza campanilismo becero. In particolare il confronto tra vecchi e nuovi comici racconta bene questa transizione. Checco Zalone è in realtà uno pseudonimo (con un gioco di parole che funziona solo in dialetto barese e indicherebbe una persona grezza e ignorante) per un personaggio che racconta ironicamente i difetti del pugliese medio. Pio e Amedeo, invece, fanno l’esatto opposto e tra il serio ed il faceto ostentano tutti i difetti del pugliese, rendendoli per contrasto un tratto identitario.

Identità e soldi

Il rapporto tra turismo e media sembra apparentemente sconnesso ma è parte di un circolo virtuoso innescato sia dal pubblico che dal privato, in cui il turismo attira l’attenzione dei media, portando ulteriore turismo e così via. A dare il via a questo circolo sono stati alcuni imprenditori salentini imponendo la Puglia come degno concorrente della riviera Romagnola e proponendo lì concerti di nomi di punta nel periodo in cui l’opinione pubblica si scagliava contro il Cocoricò. Negli anni il Salento si è trasformato da una riviera per poveri e terroni a una meta per persone ricche e famose. A continuare la roadmap verso la situazione attuale ci si è messa la regione, patrocinando qualunque produzione cinematografica o televisiva che ambientasse il proprio prodotto in Puglia (anche a scapito delle maestranze locali) e rendendo in meno di dieci anni il Bifest dall’ennesimo micro-festival del cinema a uno dei più rilevanti sul piano nazionale. Anche sul piano musicale la Puglia sta diventando sempre più centrale nel panorama dei festival, nonostante sia ben collegata solo nel trasporto aereo. Non serve essere maliziosi per capire che è il profitto, più dell’orgoglio, a spingere per certe iniziative, ma la nuova identità ne è una felice conseguenza.

All’immagine patinata portata avanti principalmente dai media tradizionali, si contrappone una contro-narrazione che mostra i lati peggiori e il degrado della Puglia: a farlo sono anti-influencer o mematori che con stile sarcastico mostrano le incongruenze di ciò che hanno attorno o tal volta documentano questa o quella scena potenzialmente virale per il ragebait o per un genuino apprezzamento della cringe comedy.

La Puglia al singolare e i propri cittadini si trovano quindi a dover giocolare tra due immagini su cui basare la propria identità tra un rebranding e il nascondere la polvere sotto il tappeto. Ripetere con la birra Raffo (fino a non poco fa esclusiva e identitaria dei tarantini) la stessa operazione avvenuta con la birra Messina non cancellerà tutti gli stereotipi sulla città dell’ex-ILVA. Allo stesso modo l’affollamento estivo si contrappone allo spopolamento: non basta la promessa della vita lenta e le varie iniziative in supporto alle startup per fermare un trend in corso da decenni. Se a questi si aggiungono gli effetti della gentrificazione in favore di un turismo sempre più esclusivo, l’accessibilità alle risorse di questa terra vengono meno agli stessi residenti. La dissonanza c’è ma quando qualcuno lo fa notare, la risposta è un’alzata di scudi al limite della negazione.

Siamo dunque di fronte a un fenomeno complesso e sfaccettato, molto più di una semplice performance collettiva: se da un lato c’è chi guadagna direttamente dal portare avanti un’immagine distorta di una Puglia da sogno, per altri è un autoconvincimento che sta portando prima di tutto a un’omogeneizzazione della cultura pugliese, non troppo dissimile al processo di formazione dell’identità nazionale italiana nel periodo delle emigrazioni verso le Americhe. Le due immagini della Puglia sono entrambe non del tutto vere e non del tutto false: quella dei tormentoni dei Boomdabash e quella dei video su Tiktok di gente che urla cose becere in lingue poco intellegibili. Di fronte a ciò la Puglia resta la cosiddetta oasi nel deserto, ma pur sempre una regione del Meridione con i soliti problemi: bella ma non ci vivrei.

Immagine generata con tutti gli stereotipi turistici della Puglia

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