Nelle ultime settimane è parlato molto della giudice Apostolico, mischiando la sua attività professionale con la sua vita privata. L’accanimento è partito da Matteo Salvini, che ha fatto della decisione delle giudice di bocciare il decreto Cutro un caso politico. Uno sguardo a freddo, al diradarsi dal polverone ci permette una serie di riflessioni più ampie.
Conviene partire dal contesto e dalla polemica stessa così da poter mettere le basi per delle considerazioni che si estendono oltre la cronaca.
La giudice è entrata al centro delle polemiche per aver accolto dei ricorsi di alcuni richiedenti asilo che si oppongono al nuovo sistema varato per decreto. Questo sistema prevede che i migranti possano accedere a una versione accelerata della richiesta di asilo dietro pagamento, durante la quale i soggetti risultano in stato di fermo.
La decisione è quindi di natura giuridica ma, abbracciando uno dei poteri fondamentali dello Stato, entra in collisione col volere del Governo, che agendo via decreto può, in prima battuta, superare ogni forma di freno previsto dalla costituzione per poi essere discusso dal parlamento ed eventualmente essere messo sotto il vaglio della corte costituzionale; nel frattempo può comunque fare danni.
A grandi linee la giudice ritiene illegittima, e quindi incompatibile col nostro sistema giuridico, la detenzione dei migranti e il pagamento della cauzione. Questo ha generato un forte malcontento prima nel governo con i ministri Nordio e Salvini, poi con la destra tutta che ha colto la palla al balzo per schierarsi contro il nemico di turno per il solo gusto di andare contro una fantomatica sinistra: si noti che ai primi momenti della questione, non era noto nulla della giudice, tanto meno la sua appartenenza politica.
Se Nordio ha risposto in maniera altrettanto Giuridica attraverso l’apertura di un provvedimento disciplinare, Salvini ha mandato tutto in vacca facendo trapelare dei video che mostrano la giudice partecipe ad alcune manifestazioni a sostegno della causa migrante, risalenti ad alcuni anni fa.
È stato Salvini a rendere il caso più squisitamente politico perché i video implicano in qualche modo una non parzialità della giudice e un uso strumentale dei poteri ella magistratura (non meno strumentali di quelli usati dal ministro Nordio) per perseguire una visione personale.
A preoccupare di questa mossa sono diversi aspetti: il primo è che i video al centro delle critiche avrebbero una provenienza illecita. Il secondo è il fatto che questi video esistessero e fossero pronti a un uso di questo tipo fa sollevare più di qualche sopracciglio. Su entrambi questi aspetti si è detto parecchio nella stampa mainstream quindi c’è poco di originale da aggiungere in questa sede.
Dove si potrebbe aggiungere è sul fatto in sé che oggi più che in altri momenti focalizzarsi sulla vita della giudice è rilevante. Se una quindicina d’anni fa si litigava sul confine tra vita privata e politica di Berlusconi con la destra che difendeva l’irrilevanza della vita privata di Silvione, oggi sembra esserci un’argomentazione opposta. Si tratta solo di ipocrisia, visto che al centro delle critiche è una persona presuntamente di sinistra o è segno dei tempi? Cos’è cambiato da allora? Molto
Innanzitutto i social network sono diventati di massa, mettendo al centro dell’attenzione potenzialmente chiunque: i quindici minuti di celebrità preannunciati da Andy Warhol sono effettivamente arrivati per potenzialmente chiunque, volente o nolente. Il confine tra identità pubblica e vita privata diventa quindi estremamente labile, al punto che curare i propri profili social ha risvolti professionali anche per chi non è un influencer di mestiere.
Per esempio, per i dipendenti pubblici è richiesto da una norma del 2023 di non ledere all’immagine della pubblica amministrazione con le proprie attività social. Se per i professionisti iscritti a un ordine potrà non sbalordire, che sia lo Stato a chiederlo alle centinaia di migliaia dei suoi dipendenti pubblici è un fatto notevole.
A questo bisogna aggiungere che in Italia (ma non solo) ha attecchito particolarmente l’ideologia californiana e in particolare l’idea, spinta quasi a necessità, di un costante self-branding. Ognuno è imprenditore di se stesso e deve costantemente vendersi sul mercato del lavoro. Cosa succede se il mercato del lavoro si mischia alla propria immagine personale? Accade che mantenere un basso profilo è un lusso che non ci si può più permettere, neanche in professioni che normalmente non richiederebbero la cura di una identità pubblica.
L’unione di questi fattori è stata rinominata nella stampa anglofona influencer creep, specialmente nella penna di Sophie Bishop. La gestione del proprio profilo professionale è diventata tanto importante quanto la qualità della propria performance professionale. Un tatuatore dovrà avere un profilo Instagram non solo per mostrare il proprio portfolio ma per mostrare nella propria persona l’idea e lo stile di vita di un tatuatore; un personal trainer dovrà mostrare di seguire una dieta sana e una vita attiva.
In sostanza la distinzione tra Linkedin e gli altri social si fa sempre più labile: tutto è contenuto, e tutto contribuisce alla creazione di un profilo su cui dipende la credibilità della persona e del suo agire in ogni aspetto della propria esistenza.
A costruire un framework teorico che spiega questo passaggio è il filosofo Hans-Georg Moeller che nel suo libro scritto con Paul J. D’Ambrosio e nella sua attività di divulgazione ha introdotto il concetto di profilicity.
Inizialmente l’identità individuale veniva costruita attraverso il “dispositivo” della sincerità, ovvero l’aderenza al proprio ruolo nella società. Il valore di una persona si misura nell’aderenza al proprio ruolo, quasi stereotipico: un buon padre di famiglia si comporta in questo modo, una buona moglie, un bravo medico e così via. Tutti si adeguano a questo ideale più o meno imposto e misurano la propria identità in relazione a questi stereotipi. Questo approccio è ben mostrato nel lavoro di August Sanders People of the Twentieth Century, in cui ritrae la Germania del suo tempo proprio con foto, tal volta costruite a regola d’arte, che mostrano le persone calate nel proprio ruolo.
A questo paradigma, che ha caratterizzato l’attività umana sin dai suoi albori, nel novecento si impone lentamente, per lo meno nell’occidente individualista, il dispositivo dell’autenticità per la costruzione della propria identità. Il proprio ruolo non basta, perché limita l’esperienza individuale: la propria identità è unica e pertanto va cercata nell’autenticità della propria persona che va quindi scoperta (o costruita) in uno sforzo infinito di creatività ed espressione di sé.
Da qui anche il focus sul vestiario, o anche la ricerca di una unicità anche quando la propria identità si forma attraverso un gruppo. Per quanto i punk siano sempre riconoscibili come tali, ogni individuo punk ha uno stile unico che dipende dalla quantità e posizione delle borchie, la grandezza e il colore della propria cresta e così via.
Secondo Hans-Georg Moeller, nel terzo millennio ha preso il sopravvento la profilicity: per quanto ci possiamo illudere di inseguire una qualche forma di autenticità, questa è impossibile da raggiungere dal momento in cui siamo costretti a costruire un proprio profilo virtuale. Qui virtuale non si è da intendere come legato ai social (perché la profilicity trae origine ben prima di Internet) ma come una costruzione di un profilo identitario che va oltre il singolo social network e abbraccia la nostra intera esistenza.
Un profilo si costruisce in base a come la nostra identità e la nostra immagine appaiono all’esterno, ovvero come siamo percepiti dagli altri e lo sforzo identitario sta nell’aderire a quest’idea. Se non lo facessimo appariremmo come falsi, costruiti e poco autentici, ma allo stesso tempo la costruzione del profilo ci richiede una qualche forma di performatività costante. La performatività è uno dei punti chiave: se un medico, al tempo dell’autenticità doveva prima di tutto essere un medico esemplare, nell’era della profilicity deve prima di tutto apparire come tale: poco importa se tolto il camice fuma, beve e mangia male, basta non documentarlo. Paradossalmente, inseguire il proprio profilo rende impossibile una vera autenticità ma allo stesso tempo il profilo deve apparire autentico e poco artefatto. Nella profilicity il soggetto si percepisce osservando come gli altri percepiscono il sé, non ci vediamo riflessi dal nostro specchio ma riflessi dall’occhio degli altri, solo che questi altri non sono necessariamente persone reali ma un generico visualizzatore del nostro profilo.
Si ottiene inoltre un capovolgimento rispetto al mondo della sincerità. Riprendendo l’esempio del tatuatore, nel tempo della sincerità, lo stereotipo del tatuatore emergeva dal conformismo di tanti individui che costruivano l’identità all’idea di tatuatore, oggi sono i tatuatori che costruiscono la propria identità attorno a uno stereotipo presistente di tatuatore, pur illudendosi di farlo in modo autentico. Un nuovo conformismo emerge ma al contrario. È per questo che molti profili di influencer della stessa nicchia sono sovrapponibili e finiscono per diventare tutti molto simili.
Sebbene ci manchi un vocabolario e una consapevolezza comune su questo fenomeno appare abbastanza evidente come in meno di quindici anni abbiamo assorbito questo modo di intendere noi stessi e gli altri.
Tornando alla questione Apostolico, il motivo della controversia è che la giudice non è un personaggio pubblico, e non abbiamo quindi un profilo con cui confrontarci e su cui basare il nostro giudizio dei fatti. Per poter delegittimare o meno il suo operato come giudice a livello politico, e non dal punto di vista strettamente tecnico, abbiamo un profilo che viene costruito senza il suo consenso dai video trapelati e dallo stesso dibattito mediatico. Da qui possiamo noi giudicare gli eventi secondo l’aderenza o meno a questo profilo, tralasciando completamente sia la volontà di esporsi della giudice, sia il suo personale lavoro di costruzione del proprio profilo che dovrebbe essere, in teoria, l’unico a contare.
Apostolico non era pronta al quarto d’ora di celebrità, come probabilmente non lo sarebbe chiunque di noi. Spesso, persino i giovanissimi o coloro che per propria abitudine lasciano una traccia digitale facilmente ricostruibile, faticano a gestire la pubblica attenzione e finiscono per ingabbiarsi in dei personaggi insostenibili. È quello che succede a molti fenomeni da baraccone del web o le varie meteore del mondo dello spettacolo incapaci di creare una persona consistente insieme al personaggio.
Quello che ci insegna questa storia, forse, è che a un certo punto al centro delle cronache potremmo essere noi e quindi dobbiamo fare una scelta: costruirci un profilo impeccabile o lasciare che siano gli altri a desumere il nostro profilo a loro piacimento, entrambe opzioni che lasciano un po’ a desiderare, considerando che una volta messo in moto il macchinone mediatico, ogni forma di controllo è persa.